Armaan in lingua panjabi significa desiderio, ed è il nome che Meena ha scelto per il suo primo figlio. Meena è arrivata in Italia dall’India quando aveva solo tredici anni. Oggi vive a Vicenza, ma la sua storia è fatta di sacrifici e tanta forza. In questa intervista ci racconta come ha affrontato, con grande determinazione e amore, la diagnosi di autismo di Armaan.
Raccontami di te, Meena.
Sono arrivata in Italia quando avevo tredici anni. Ero l’unica donna di casa, mio padre e i miei fratelli lavoravano, nostra madre ci ha raggiunto solo qualche anno dopo. Vivevamo in una casa piccolissima e diroccata, pioveva dentro!
Ho fatto le medie e anche le superiori, a casa facevo tutto, da mangiare, andavo a fare la spesa in bicicletta. È stato molto difficile, ho imparato bene l’italiano e grazie a questo sono riuscita a trovare il mio primo di lavoro come parrucchiera-estetista. Ho fatto anche la patente, una grande concessione da parte di mio padre! E questo mi ha permesso di essere sempre autonoma. Mi sono sposata a 22 anni e dopo tre anni è arrivato Armaan.
Quando avete scoperto che Armaan è autistico?
All’inizio Armaan ci sembrava un bambino come tanti. Ha iniziato a camminare verso l’anno, ma il linguaggio tardava ad arrivare. Non mi sono preoccupata subito: si dice spesso che i maschi parlano più tardi.
Poi, su consiglio della pediatra, abbiamo fatto una visita neuropsichiatrica.
Io non avevo mai sentito parlare di autismo, non sapevo neanche cosa fosse.
Quali segnali vi avevano messo in allarme?
Soprattutto il sonno. Armaan non dormiva la notte ed era molto faticoso, dormivamo pochissimo. La gravidanza stessa era stata complicata: ho passato venti giorni ricoverata prima di un cesareo d’urgenza. È stato tutto molto faticoso.
Ma fortunatamente mio marito mi è sempre stato vicino, non mi ha mai lasciata sola.
E credetemi, non è una cosa scontata.
Cosa è successo dopo la diagnosi?
Abbiamo cominciato subito le terapie, grazie al Presidio Riabilitativo di Villa Maria. È una struttura convenzionata con il Servizio Sanitario e da allora Armaan è seguito con regolarità.
Lo porto sempre io in macchina: per fortuna ho la patente, ma mi rendo conto che per molte famiglie, soprattutto straniere, spostarsi è un problema enorme.
E poi c’è la lingua: io parlo italiano, ma capire il linguaggio tecnico, sapere dove andare, come attivare i servizi… non è stato affatto semplice.
Come avete scoperto il metodo ABA?
È stata una maestra a parlarcene. Aveva notato piccoli miglioramenti in Armaan, anche solo grazie alle terapie pubbliche, e mi ha suggerito di informarmi sull’approccio ABA.
Non ne avevo mai sentito parlare. Come non sapevo cosa fosse l’autismo, all’inizio.
Avevo già lasciato il lavoro per occuparmi di mio figlio: non riuscivo a delegare, non mi fidavo. Facevo un lavoro che mi piaceva moltissimo – ero molto brava nella ricostruzione unghie, ci mettevo solo 40 minuti! – ma ho dovuto metterlo da parte.
Oggi Armaan ha dieci anni, e nel frattempo è arrivata anche Diya, la sua sorellina.
In indiano, Diya è la lampada che porta la luce. E lei è davvero una luce per noi. È affettuosa con suo fratello, gli vuole bene, anche se la sua vita è inevitabilmente condizionata dalle esigenze di Armaan.
Com’è la tua giornata oggi Meena?
Una volta, durante una nostra festa religiosa, una mamma si è avvicinata a me in lacrime per chiedermi di Armaan, delle terapie che stava facendo, anche lei aveva molti problemi con suo figlio e cercava aiuto, un appoggio. In quel momento ho capito quanto potesse essere prezioso il mio aiuto per la comunità. Da allora, ogni giorno ricevo chiamate da altri connazionali: li aiuto come posso, anche solo accompagnandoli per una commissione, perché ho la macchina.
Mi prendo cura anche di mia suocera, rimasta vedova da dieci mesi, e di mio cognato, che ha una disabilità. Sono diventata un punto di riferimento per loro. Continuo a seguire Armaan con costanza e dedizione, ma cerco di essere presente per tutti. Non nascondo che sia faticoso, ma sentirmi utile mi dà forza. Con mio marito lavoriamo ogni giorno perché Armaan possa diventare sempre più autonomo in futuro.
È il nostro desiderio più grande.